Parte prima
2. La valutazione

2.d Valutazione psicologica e comorbilità psichica

Psicoterapia Breve Strategica in aiuto alla riabilitazione psicologica
Indice dell'articolo

Quando si parla di malattie reumatiche croniche si parla di affezioni a carattere progressivo, fortemente disabilitanti, associate a dolore, limitazione funzionale, perdita di abilità sociali e di conseguenza a elevati costi sociali. Dal punto di vista medico l’obiettivo non è la guarigione, bensì quello di ritardare o prevenire le compromissioni funzionali o la disabilità.

In questa parte tratteremo quelle reazioni psicologiche che vengono attivate se la malattia ha un decorso cronico e del conseguente confronto con l’integrità fisica. L’inevitabile necessità di seguire terapie prolungate e il deterioramento funzionale possono turbare l’equilibrio psicologico fino al punto da creare ostacolo per la gestione della malattia.

Rilevamento del problema

L’ostacolo di solito viene rilevato dal medico specialista attraverso vari indicatori: i più diffusi sono:

  • la richiesta di aiuto, sempre più frequente;
  • la tendenza a lamentare l’inefficacia, anche sintomatica, della terapia e l’assenza di miglioramenti;
  • la mancata assunzione dei farmaci secondo le prescrizioni;
  • l’incostanza o la latitanza nelle cure riabilitative;
  • la riduzione della funzionalità dissonante coi dati obiettivi;
  • l’eloquio sine spe.

Tali indicatori ci segnalano che, dal punto di vista psicologico, è in atto un problema di relazione, possibile a 2 livelli:

  • tra medico e paziente;
  • tra il paziente e se stesso.

Modello strategico

Il modello del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, evoluzione del Mental Research Institute di Palo Alto (California), interviene sui problemi psicologici con un’ottica basata sull’obiettivo ed è finalizzato alla soluzione del problema. I fondamenti teorici ed epistemologici sono: la filosofia del costruttivismo radicale (Von Glasersfeld 19751; Von Foerster 19732) e la cibernetica (Ashby 19713). Gli studi, ormai forti di quarant’anni di sperimentazioni e continui aggiustamenti, ci hanno consentito di mettere a punto un modello d’intervento secondo la logica strategica, con protocolli di trattamento sperimentati su migliaia di casi, tarati per specifiche patologie o problemi. Il metodo clinico empirico-sperimentale è quello che ci ha permesso d’individuare delle ridondanze di percezione e reazione nei confronti della realtà che danno luogo a diversi Sistemi Percettivi Reattivi. In altri termini, si conosce un problema mediante la sua soluzione, in un’ottica legata non più alla teoria ma all’efficacia del trattamento.

Tale modello non lavora quindi sulle cause che hanno prodotto il problema, bensì sulle reazioni che una persona mette in atto di fronte al problema; queste sono le Tentate Soluzioni: pensieri (ideazioni, credenze, emozioni ecc.) e comportamenti, ovvero strategie non produttive che stanno alla base della formazione e della persistenza delle difficoltà impedenti. Il costrutto di Tentata Soluzione che crea il problema e/o lo alimenta non è un costrutto riguardante soltanto le psicopatologie, ma riguardante di continuo la nostra vita, il nostro modo di percepire le cose. È quindi necessario prestare attenzione a quei modelli di percezione e reazione ridondanti nei confronti della realtà che noi tendiamo spontaneamente a ripetere. L’obiettivo è l’individuazione e lo sblocco dei pattern ridondanti d’interazione disfunzionale tra la persona e la sua realtà problematica. Le Tentate Soluzioni del paziente diventano allora il problema. Di conseguenza, scopo di un intervento strategico appare quello d’interrompere il circolo vizioso che si è venuto a creare fra le Tentate Soluzioni e la persistenza del problema, tramite specifiche indicazioni terapeutiche in grado di sovvertire l’equilibrio patogeno del sistema. “Inventare”, dal punto di vista dell’intera tradizione delle invenzioni tecnologiche e scientifiche, significa trovare il modo di percepire la realtà da una prospettiva insolita, inaspettata, e quindi far diventare quella data cosa un’altra cosa, che ci permette di farla funzionare diversamente rispetto a come funzionava prima, senza successo. L’invenzione, in realtà, è dunque un cambiamento del nostro modo di guardare qualcosa.

Ma questo modo di guardare lo possiamo cambiare in molte maniere: cambiando la luce che utilizziamo per guardare l’oggetto, cambiando l’angolazione, cambiando il linguaggio che usiamo per descriverlo, cambiando le metafore a cui ricorriamo per rappresentarcelo.

Da questo punto di vista, il costrutto di Tentata Soluzione costituisce non solo il veicolo principale per conoscere il funzionamento di un problema, ma anche la via di accesso privilegiata per la sua soluzione. Il passaggio, allora, è dalla logica ipotetico-deduttiva alla logica costitutivo-deduttiva. È il principio del feedback nella cibernetica: la causa costruisce l’effetto e l’effetto crea la causa. La circolarità si sostituisce alla linearità.

Il problema, per essere definito tale, dev’essere “soggettivamente impedente” per la persona che lo lamenta, o per la rete di relazioni con cui lei interagisce. Da un’angolazione strategica, pertanto, per modificare una situazione problematica non è necessario svelarne le cause originarie (aspetto su cui, peraltro, non si avrebbe alcuna possibilità d’intervento); il lavoro, piuttosto, si focalizza su come la situazione problematica simantiene nel presente, grazie alla ridondante ripetizione delle Tentate Soluzioni attuate per risolverla. Quindi si lavora sul presente e non sul passato, su “come funziona” il problema piuttosto che sul “perché esso sussiste”, sulla ricerca delle “soluzioni” invece che sulle “cause”.

In quest’ottica, per noi non fa differenza che un problema sia di natura squisitamente psichica, psicosomatica o somatopsichica, come nel caso di difficoltà reattive ad affezioni organiche, giacché l’obiettivo dell’intervento è interrompere le Tentate Soluzioni disfunzionali. L’evoluzione, in chiave strategica, si è dimostrata l’approccio più efficace e più efficiente attualmente in psicoterapia per trattare i problemi psicologici impedenti (Nardone e Salvini 20044).

Problema di relazione tra medico e paziente: l’inosservanza delle prescrizioni ed elementidi communicazione terapeutica

La relazione tra medico (o altre figure tecniche che intervengono sulla malattia) e paziente può essere soggetta a vere e proprie impasseche vanificano od ostacolano il processo terapeutico, con conseguenti costi personali e sociali. Dai numerosi studi sul fenomeno dell’inosservanza delle prescrizioni mediche risulta che solo una percentuale inferiore al 60% di pazienti assume scrupolosamente la terapia, con forti variabilità correlate ai tipi di malattia e alle tipologie della terapia.

Le terapie brevi vengono seguite più scrupolosamente di quelle a lungo termine. Le prescrizioni preventive sono osservate meno di quelle inerenti alla terapia, persino quando la prevenzione è nei confronti di patologie con rischio di mortalità. In generale, si ritiene che un terzo dei pazienti osservi puntualmente le prescrizioni, un terzo qualche volta, un terzo mai. Inoltre numerosi studi ci fanno ipotizzare che le modalità di comunicazione utilizzate dal medico nella relazione col paziente influenzino, in maniera determinante, l’osservanza delle prescrizioni.

Il primo dato è che i pazienti comprendono male le prescrizioni del medico. Il secondo è che i pazienti dimenticano ciò che viene loro prescritto. È dunque evidente una difficoltà di comunicazione che non consente il conseguimento dell’obiettivo previsto. Il linguaggio tecnico, lo scarso contatto dello sguardo, il distacco emotivo ecc. non permettono una comunicazione efficace tra medico e paziente. Tale mancanza sembra dovuta al ricorso al linguaggio descrittivo-indicativo o digitale, ove la comunicazione privilegia la spiegazione e l’indicazione delle proprietà delle cose. È un tipo di comunicazione dotata di scarsa efficacia sull’azione. Ad esempio, tutti noi sappiamo che fumare fa male, ma non è sufficiente saperlo per smettere, o perlomeno abbiamo bisogno di molto tempo, talvolta di anni, per dare azione all’informazione. Insomma, non è sufficiente sapere per fare.

Il linguaggio ingiuntivo-performativo o analogico (Austin 19625; Watzlawick 19806) è invece il linguaggio dei processi di persuasione, quelli che inducono a fare, piuttosto che a capire. Senza porsi l’obiettivo di richiedere al medico di essere un esperto di questa tipologia comunicazionale, possiamo comunque anticipare alcune regole essenziali per una comunicazione efficace.

- Parlare il linguaggio del paziente, ovvero sintonizzarsi con lui dal punto di vista linguistico: parlare un linguaggio semplice, se la persona lo richiede, e un linguaggio più articolato, se il paziente ha maggiore bisogno di spiegazioni. In altri termini, ricalcare lo stile comunicativo dell’interlocutore. Si avranno, così, un aumento della comprensione e una maggiore alleanza terapeutica.

- La tecnica delle illusioni di alternative; ad esempio, rendere una delle due prescrizioni difficilmente accettabile per fare “scegliere” l’altra al paziente, che poi è proprio quella elettiva per il medico.

- L’anticipazione delle reazioni, nei casi in cui le persone siano poco collaborative. In tal caso, prima d’ingiungere una prescrizione, si può affermare: “Quello che sto per dirle non sarà per niente facile per lei”; oppure: “Quello che le chiederò potrebbe crearle qualche difficoltà” ecc. Ciò per neutralizzare opposizioni e/o boicottaggi, insomma per preparare il terreno all’accettazione.

- Il linguaggio analogico. Ad esempio: “Queste pillole sono per spegnere il fuoco del suo dolore. Si ricordi, quindi, di tenere il terreno bagnato, per evitare che prenda fuoco...”. In tale settore troviamo diverse forme linguistiche, come le ridefinizioni, le ristrutturazioni, gli aforismi, l’incutere dubbi ecc.

- È regola essenziale guardare sempre dritto negli occhi il paziente, quando si vuole che un’informazione venga da lui acquisita (contatto oculare).

Questo, sinteticamente, è il linguaggio adottato nel modello strategico di comunicazione, associato a manovre specifiche per specifiche patologie o problemi.

Problema di relazione tra il paziente e se stesso

Chi ha un problema psicologico fa sicuramente qualcosa per cercare di uscirne. Se la soluzione applicata, ancorché assai onerosa, funziona, siamo di fronte a una fisiologica soluzione del problema.

La persona che attinge dai propri valori, esperienze, cultura, credenze e da tutto ciò che costituisce il suo bagaglio di “visione del mondo”, riuscendo a sciogliere il nodo che ostacolava la sua vita, non ha un problema psicologico, ma una difficoltà. Se, invece, i tentativi non portano a una soluzione, di solito si ha un riproporsi dei medesimi tentativi, che potranno cambiare di contenuto, ma saranno sottesi dalla stessa logica che porta al cronicizzarsi di veri e propri problemi psicologici impedenti, cioè a patologie. Ad esempio, una persona che ha sviluppato una fobia da una paura occasionale e che cerca di evitare la paura facendo in modo di non essere mai sola, costruisce un problema ben più complesso, che non riguarda più solo lei, ma investe altri che a loro volta porranno delle condizioni atte a scatenare in seguito delle reazioni ecc., strutturando, così, un sistema circolare di problemi e di tentativi di soluzione che s’ingrandisce a spirale.

Il problema psicologico è dato proprio dalla rappresentazione circolare che a sua volta diventa come una vite senza fine, alimentata proprio dai tentativi inefficaci di soluzione che la persona, e coloro che sono in relazione con lei, attivano per cercare di uscirne fuori.

Non ci occupiamo di “nocicezione”, ovvero di tutti quegli eventi chimici ed elettrici che si producono dalla periferia alla corteccia cerebrale, conseguenti a una stimolazione appunto nocicettiva, ma del “dolore”. Il concetto di dolore viene usato con riferimento alla percezione sensoriale e alle alterazioni emotive e cognitive provocate dalla nocicezione, ossia al fenomeno psicofisiologico che porta all’elaborazione percettiva soggettiva di questa stimolazione nervosa.

Ed è proprio della percezione soggettiva che noi ci occuperemo qui.

Molti studi indicano che il dolore è un comportamento appreso e che tale apprendimento avviene per osservazione dell’amplificazione del dolore in contesti familiari. Così, i bambini possono essere più predisposti di altri a lamentarsi del dolore quando hanno qualche familiare che mostra una qualsiasi sintomatologia algica.

Mentre non c’è alcun accordo tra gli studiosi nell’attribuire un’eziopatogenesi psicologica al dolore, per noi psicoterapeuti il dolore, legato a patologia sia oggettiva che funzionale, non è né vero né falso, ma se costituisce un problema è da trattare e da gestire. È abbondantemente documentato che la soglia deldolore è squisitamente soggettiva e che il dolore è soltanto in parte un fenomeno biologico, di certo non assimilabile ai fenomeni clinici oggettivamente misurabili.

La causa di questa diversa percezione del dolore può essere correlata a fattori psicologici svariati. Oggetto d’intervento, per lo psicoterapeuta, è la relazione che la persona instaura col dolore ai vari livelli, ovvero tra sé e sé, con gli interlocutori di riferimento (medici, fisioterapisti, infermieri) e — cosa da non trascurare — con i familiari. Per far ciò, utilizziamo collaudati protocolli di trattamento che lavorano per interrompere le Tentate Soluzioni ai vari livelli sistemici.

Ci sono numerosi modi di misurare il dolore. I più diffusi sono le scale di valutazione: dalle scale verbali a quelle numeriche, dalle visive alle cromatiche, fino ai questionari di valutazione standardizzati; alcune sono utilizzabili dal paziente come automonitoraggio, altre sono strumenti per la ricerca. Salaffi e Stancati (2001)7 hanno standardizzato e tarato, per la popolazione italiana, varie scale di valutazione delle malattie reumatiche, che si sono rivelate indispensabili nel campo della ricerca, ma che hanno un uso limitato nella pratica clinica. Noi psicoterapeuti non utilizziamo scale di rilevazione oggettive, ma trattiamo la verità soggettiva della persona che lamenta una difficoltà: questo è, per noi, il problema.

Comorbilità psicopatologica secondaria a dolore cronico

La varia espressività clinica del dolore porta a una specifica e soggettiva comunicazione del medesimo. Qui diamo uno sguardo particolare alle persone che, in seguito all’insorgenza di una sindrome dolorosa, in particolare sindromi ad andamento sub-acuto che evolve in cronico, presentano quadri psicologici secondari alla malattia, ma che contribuiscono ad aggravarne il decorso. Sistemi Percettivi Reattivi specifici predispongono a specifici quadri clinici. In altri termini, ci sono vari modi di percepire un problema, o, come in questo caso, un dolore. Dal punto di vista psicologico, le impasse rilevate più frequentemente sono le seguenti.

- Reazioni di tipo fobico: cioè di tutte quelle persone che in presenza del dolore hanno paura della paura del dolore e hanno bisogno di qualcuno che stia loro accanto per poter affrontare la quotidianità. Alcuni devono, ad esempio, uscire accompagnati, o perché hanno paura di cadere o semplicemente per sentirsi più sicuri. La loro Tentata Soluzione è la richiesta di aiuto, rivolta prevalentemente ai familiari, l’evitamento di luoghi e situazioni, e quindi anche di medici e ospedali, e di cure che vengono identificati come pericolosi o dolorosi. La memoria del dolore pregresso sembra possa agire come stimolo doloroso e diminuire la percezione della soglia sino a influenzare significativamente la percezione di un nuovo stimolo doloroso. È un processo disfunzionale che può diventare invalidante dal punto di vista psicologico, attivato proprio per far fronte alla possibile manifestazione del temuto dolore.

- Reazioni di tipo ansioso-ossessivo: persone che per paura del dolore si limitano nella vita sociale, dato che basta poco a scatenarlo; il loro pensiero è caratterizzato da una grande preoccupazione per il futuro. Perciò non traggono alcun beneficio dai periodi di remissione, mantengono un’ideazione sempre allarmista e possono far largo uso di farmaci in modo soggettivo, scavalcando le indicazioni dello specialista. Di solito sono persone apparentemente collaborative nella cura e si sforzano di fare ciò che devono, ma con un atteggiamento costantemente preoccupato. La loro Tentata Soluzione è il controllo, che sentono di perdere per la malattia. Si aspettano sempre la conferma che la malattia non è grave, e, dal medico, segnali di rassicurazione, anche se questo non esaurisce l’atteggiamento ansioso; il rischio, in casi così, è l’attivazione del circolo vizioso allarme-tensione muscolare-dolore.

- Reazioni di tipo depressivo: sembrano le più diffuse, caratterizzate da perdita di fiducia, da irritabilità, disturbi del sonno e dell’alimentazione, della concentrazione e della memoria; il generatore emozionale è dato da frustrazione, rabbia e impotenza. La loro Tentata Soluzione è spesso il rimandare, oscillando tra la rassegnazione e la rinuncia espressa come non accettazione degli eventi (ad esempio, colui che ha accettato una dolorosa artrite alla spalla sinistra, ma non a quella destra). Oppure persone che non accettano i limiti posti dalla malattia, e si sentono vittime di una vulnerabilità che pensavano di non avere. Sono persone che razionalmente sapevano che “tutto può accadere”, ma che, dal punto di vista emotivo, non hanno mai pensato che ciò valesse anche per loro. L’atteggiamento è spesso rigido, ossia: “Non doveva accadere”. Dal punto di vista clinico, talvolta alcune di loro presentano reazioni acute simili a PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress), come nel caso di esiti cronici da traumi, caratterizzati da frequenti rimuginazioni e flashback. In tal caso, spesso esse siarrendono, rendendo difficile l’esecuzione del protocollo terapeutico.

- Reazioni di tipo depressivo radicale: ideazione nichilista e sine spe, ovvero: “Nessuno può far niente, è nella mia natura”; oppure: “È l’età, non posso reagire, la natura non si può cambiare”; “Le cure sono inutili, tanto, poi, quando le si sospendono, il dolore ritorna”. Pensiero radicale che presuppone di essere vittima esclusivamente del destino o della propria natura, magari perché “anche mia madre ne soffriva”, ma pure dell’età. Spesso il dolore cronico diventa allora il canale espressivo della sofferenza esistenziale dell’anziano. Rinunciano a curarsi, o non lo fanno abbastanza, per impotenza, cioè: “È inutile che io faccia qualcosa per me”; delegano agli altri ogni forma d’intervento. Saranno i familiari a doversi far carico di ogni singola azione inerente alla malattia; qui troviamo una scarsa compliance nella relazione terapeutica e nella gestione della malattia. Spesso sono persone che diventano vittime della diagnosi, in quanto essa conferma la loro condizione d’ineluttabilità. Talvolta, invece, individuano nello specialista l’interlocutore a cui vorrebbero lamentare ben altre sofferenze.

- Reazioni di tipo ipocondriaco: vale a dire persone con la paura che la malattia possa aggravarsi, degenerare, costantemente impegnate ad ascoltare i segnali del proprio corpo alla ricerca di eventuali variazioni allarmanti o quantomeno da non sottovalutare. La paura è che la diagnosi non sia quella giusta. Queste persone hanno nello specialista il loro interlocutore privilegiato, al quale forniscono dettagliatamente tutte le indicazioni affinché niente sia sottovalutato. Sono persone che hanno imparato a essere fortemente prevenute nei confronti degli altri e soprattutto verso coloro che minimizzano la pericolosità o la dolorosità della malattia. Esigono la spiegazione organica con terminologia tecnica, ma allo stesso tempo la temono. Così, con tutti i loro dubbi, finiranno per rivolgersi al successivo specialista, e via di seguito. La loro Tentata Soluzione è quella della richiesta di aiuto esclusivamente specialistico, meglio se con un medico di chiara fama, ma anche quella di cambiare spesso specialista, per poter trovare finalmente colui che darà loro la spiegazione convincente che essi si aspettano e che ancora non hanno trovato. Purtroppo, ciò accadrà difficilmente, e questo li manterrà in un pellegrinaggio senza fine, alimentando un circolo vizioso di allarme psicologico. L’aumento dell’arousal (attivazione psicofisiologica), sia come ipervigilanza sul proprio stato somatico, sia come energia psichica associata a emozioni quali ansia, paura e rabbia, farà insorgere correlati neurovegetativi anche rilevanti.

- Reazioni di tipo ipocondriaco ansiose e persecutorie, che costituiscono una categoria mista caratteristica dei pazienti che presentano dolore fibromialgico. Tali pazienti nutrono diffidenza nello specialista, controllano le parole che egli usa, hanno una logica stringente che non perdona, pretendono spiegazioni convincenti. Sono persone sovente caratterizzate da forte rigidità mentale, coniugata a un alto perfezionismo, capaci di manifestare comportamenti polarizzati, nei confronti sia dei familiari che dei medici e di tutto il personale sanitario, comportamenti che possono sfociare pure in azioni legali. La loro Tentata Soluzione è il controllo degli altri, pertanto con valenza paranoica, per evitare di essere trascurate e quindi ingannate (dal loro punto di vista). Di conseguenza, pure le prescrizioni sono vagliate e spesso respinte poiché la descrizione dell’effetto collaterale genera sospetti insuperabili anche malgrado le rassicurazioni dello specialista. Se sono in posizione depressiva, questi soggetti combattono soltanto col pensiero e pretendonodagli altri ciò che ritengono giusto dal loro punto di vista. Essendo iperlogici, assumono atteggiamenti e comportamenti decisamente rigidi e prepotenti. Una signora, ad esempio, riferiva di come i medici siano in generale poco affidabili, in quanto in due diverse note cliniche universitarie le erano state prescritte terapie tanto diverse, in una con l’Aulin e in un’altra col Nimesulide, ambedue, peraltro, con effetti collaterali, motivo per il quale aveva quasi sempre evitato di assumerle! Ancora più grave, secondo lei, il comportamento della fisioterapista, scelta come la più competente, ma nei fatti rivelatasi inattendibile: mai puntuale per la riabilitazione; l’attesa era costante, dai dieci ai quindici minuti di ritardo tutte le volte... Il fatto che la sindrome fibromialgica sia priva di eziologia certa porta facilmente tali pazienti a squalificare l’operato dello specialista e a controllare di più quanto accade intorno a lui. Di solito, sono persone che esigono certezze e perciò sono costrette a vivere dolorosamente l’incertezza.

La sindrome fibromialgica rappresenta un misterioso puzzle sia per la medicina che per la psicopatologia. Un nostro studio per il trattamento ipnotico della malattia, comprendente sedute d’induzione di trance ipnotica secondo protocolli tradizionali (metodi Hilgard e Spiegele) durante le quali veniva utilizzata una serie di immagini suggestive mirate allo scioglimento del dolore, dimostrò un significativo miglioramento del dolore nel 70% dei casi e la sua scomparsa nel 50%. Tali dati — efficacia ed efficienza — rimangono confermati a tutt’oggi. L’ipnosi, in tutte le sue forme, è severamente controindicata in tutti i pazienti che presentano disturbi di personalità e disturbi psichici superiori, che pertanto è necessario escludere prima di optare per questa tecnica.

Il trattamento del dolore fibromialgico con tecniche derivate dalla Psicoterapia Breve Strategica e dall’ipnosi è stato descritto da Rucco (19968). Come devono comportarsi le persone che sono in relazione con pazienti portatori di dolore cronico? Minimizzare o consolare non ha alcun effetto di modifica del blocco psicologico, anzi, nella persona che soffre e si lamenta, innesca un’amplificazione della percezione del dolore e una conseguente comunicazione maggiormente carica o di sofferenza e disperazione o di rabbia nei confronti di chi minimizza.

Nel caso in cui confortare, minimizzare o indurre a “farsi coraggio e ad affrontare la vita” non genera opposizione nel paziente, significa che siamo, sì, in una condizione di sofferenza fisica e talvolta anche psichica, ma fuori del problema psicologico.

Le variabili cliniche prima descritte si riferiscono a dei veri e propri problemi psicologici da innesto sulla malattia organica.

Specifiche tecniche d’intervento psicoterapeutico, in chiave strategica, possono essere utili ad assottigliare il quadro clinico e ad alleggerirlo dell’incombenza psicologica. Il successo di un intervento psicoterapeutico può essere sintetizzato dalla comunicazione di una signora che soffriva ormai da sette anni di artrite reumatoide, quando disse che la sua malattia era rimasta la stessa, anzi che sapeva che essa poteva peggiorare, ma “La mia testa ora è libera di soffrire solo quando c’è il dolore”. Questa paziente aveva sempre combattuto col pensiero contro un atteggiamento vittimistico, magari giustificato, ma che le impediva di collaborare per la cura. La sua posizione era chiara: “A me non doveva succedere”. Inoltre lo psicoterapeuta può suggerire indicazioni operative per aiutare i familiari ad aiutare i propri congiunti. Lo stesso vale per le figure professionali coinvolte nella gestione del caso.

Da quanto precedentemente esposto, appare evidente quanto sia importante la comunicazione in ambito sanitario e quanto essa possa essere determinante per la compliance terapeutica.

Colloquio clinico: un dialogo strategico

Quando un operatore sanitario comunica una prescrizione, sia farmacologica che comportamentale, magari di provata efficacia, lo fa per raggiungere l’obiettivo terapeutico. Ma se guardiamo ciò dal punto di vista psicologico, possiamo solo dire che siamo appena al punto di partenza. Dire a un paziente: “Lei dovrà seguire un trattamento di riabilitazione per sei mesi, due volte alla settimana”, oppure, più semplicemente: “Da qui in avanti dovrà camminare per almeno mezz’ora al giorno e assumere una compressa al mattino e una alla sera”, non garantisce assolutamente il fatto che le indicazioni vengano poi messe in pratica. Mancanza di volontà? Superficialità? O semplicemente negazione della malattia nonostante l’evidenza? Tutte ipotesi possibili, che, però, difficilmente rispondono soltanto a prescrizioni reiterate. Insomma, è un po’ come fare la dieta; ci sono persone che aderiscono fin da subito al piano nutrizionale con diligenza e conseguenti risultati, ce ne sono altre che, pur d’accordo sull’obiettivo del dimagrire, boicottano quotidianamente il programma alimentare, per motivi diversi e soggettivi. Qui siamo di fronte a una situazione frequente, ben conosciuta dai medici: nell’interazione tra medico e paziente ciò che è condiviso è solo l’obiettivo, ad esempio arrivare a sentire meno dolore, ma non sempre c’è accordo su come conseguirlo, sebbene il paziente possa mostrare approvazione, in modo esplicito, durante il colloquio clinico. Ricordiamoci che spesso i pazienti vogliono cambiare il loro stato di sofferenza, ma non possono, o semplicemente non ci riescono.

Per far sì che l’indicazione dei sanitari sia seguita, è necessario che il paziente modifichi le proprie “credenze”, i propri automatismi quotidiani, in modo che la prescrizione sia attuabile.

L’obiettivo della comunicazione efficace è allora quello di trasformare un atto linguistico, un’informazione e soprattutto una prescrizione, in un’azione che, attivando le motivazioni del paziente, porti alla compliance terapeutica.

Operatore sanitario e paziente dovrebbero concordare, preliminarmente, su ciò che viene considerato, ad esempio, un miglioramento. Questo concetto non sembra presente nel repertorio ideativo della maggior parte dei pazienti. L’atteggiamento psicologico rigido li porta a definirsi in termini assoluti: o “Sto bene” o “Sto male”. Nel caso delle malattie reumatiche croniche è ovvio che tale modalità li esponga fin da subito a rischi di patologie psichiche da innesto, poiché “stare bene” è uno stato difficilmente recuperabile. In questo ambito, allora, il miglioramento possibile dovrebbe essere l’obiettivo della cura, e non un passaggio appena percettibile in attesa di un benessere che non ci sarà più.

L’atto del prescrivere trattamenti farmacologici e/o comportamentali è una componente fondamentale della pratica medica in ogni sua forma, poiché è attraverso la prescrizione che il medico interviene attivamente sul problema presentato dal paziente, inducendolo a seguire le sue indicazioni, di tipo sia preventivo che terapeutico.

Il passaggio successivo è quindi come si prescrive unaprescrizione.

Per rendere una prescrizione efficace dovremo persuadere il paziente che l’indicazione terapeutica fornita è la migliore per la sua patologia.

Sui processi di persuasione molto è stato scritto in psicologia, ma, al di là di tutte le tecniche di comunicazione, riteniamo essenziale il pensiero di Pascal:

Se una persona si persuade da sola, si persuade prima e meglio.

La tecnica del dialogo strategico messa recentemente a punto da G. Nardone e A. Salvini (2004)9, che riassume operativamente il pensiero di Pascal sopra citato, sembra essere attualmente la più efficace ed efficiente tecnica di colloquio clinico. Fin dalle prime battute, permette di far sentire al paziente diversamente la percezione del suo problema e dunque di cambiare le sue reazioni.

Afferma Nardone:

È un’antica illusione degli esseri umani pensare che solo se si capisce una cosa la si potrà cambiare, ma ogni giorno questa illusione viene smentita.

Nell’ottica strategica l’obiettivo è far sentire differentemente, non far capire differentemente.

Per proporre un esempio di applicazione di tale tecnica di colloquio, che prevede domande chiuse “a imbuto” e “a illusione di alternativa”, si riporta uno stralcio di colloquio clinico del caso di una signora di circa 60 anni che, per effetto di una dolorosa sindrome fibromialgica complicata per giunta da un importante stato di artrosi ormai diffuso a quasi tutte le articolazioni, aveva sviluppato una depressione reattiva. Per il dolore diffuso e spesso acuto, questa signora non usciva più di casa, passava gran parte della giornata a letto; la notte era sovente insonne e rimuginava sul passato, sulle occasioni perdute e sull’assenza di futuro. Uno stato caratterizzato dalla “rinuncia” per impotenza.

Terapeuta: «Quando il dolore aumenta, lei cosa fa per fronteggiarlo: prende i farmaci che immagino le abbiano prescritto, oppure si ritira in camera da letto?».
Paziente: «...Ho deciso di non prendere più i farmaci, ne ho provati molti: sono efficaci solo per qualche ora, poi il dolore ritorna... Inoltre, leggendo il foglietto allegato, ho visto che le controindicazioni sono tante e pericolose... per cui ho deciso di resistere mettendomi a letto e aspettando che il dolore passi...».
T. «Stando a letto, il dolore passa prima di quando assumeva i farmaci, o, per passare, ci mette più tempo?».
P. «...No, anzi, non passa per niente; ma quando sto male preferisco non farmi vedere dai miei familiari...».
T. «Se il dolore non passa, pensa che i suoi familiari siano più tranquilli sapendo che lei è a letto a soffrire, o sapendo che lei segue la terapia che la solleva dal dolore, anche se sono consapevoli della cronicità del suo problema?».
P. «...Mia figlia e mio marito sono molto preoccupati del fatto che io stia a letto quasi tutto il giorno, mi sollecitano spesso ad aiutarmi con le medicine... Hanno ragione..., ma non sanno cosa provo io... Se invece riesco — qualche rara volta — a uscire per fare la spesa, li vedo subito sollevati..., ma loro pensano che io stia bene, mentre non è così... mi sforzo».
T. «Le poche volte che riesce a uscire, magari per fare la spesa, si sente meglio o peggio?».
P. «...Se riesco a uscire, sto molto meglio, mi distraggo e il dolore... a volte scompare..., ma so che è solo per poco...».
T. «...Quindi, se non ho capito male, qualora lei si sforzi a fare le cose che prima faceva, ad esempio la spesa, si sente meglio per un po’ perché si distrae; invece, stando a letto a sopportare il dolore ed evitando di prendere le medicine, cade in uno stato di prostrazione dal quale fa fatica a uscire...».
P. «...Sì, proprio così... ma il dolore non scompare mai, a volte è sopportabile, altre volte non ho alternativa, mi devo fermare...».
T. «...Ma, da quel che mi ha detto, il dolore può renderlo sopportabile comunque, anche se non può eliminarlo. Ciò che non può fare è essere quella che era prima della malattia...».
P. «...Ecco... è questo il dolore più grosso: la consapevolezza di... essere limitata, forse vecchia... Non mi rassegno...».
T. «...Diciamo che, per non rassegnarsi, come sostiene lei, subisce la tortura del dolore che potrebbe gestire farmacologicamente, rinchiudendosi al buio in attesa di essere definitivamente sconfitta... o che il tempo torni indietro. Questo è scavarsi la fossa con le proprie mani e chiudercisi dentro...».
P. «...Purtroppo, è proprio così... Così, è vero, è una battaglia persa...».

Dal precedente stralcio di colloquio clinico emerge come il problema presentato dalla paziente si sia completamente ribaltato: dalla posizione iniziale di vittima impotente di fronte al dolore, a quella di “complice” della propria sofferenza. Per far ciò, in poche battute sono state usate soltanto le stesse argomentazioni riportate dalla paziente, che, guidate, le hanno permesso di cambiare la propria percezione delle cose e, di conseguenza, di avere una diversa reazione emotiva. Questo sarà il punto di partenza per attivare nuove reazioni al suo problema e l’inizio della complianceterapeutica.

Con ciò dobbiamo sottolineare come la comprensione, la cognizione, sia il risultato finale dell’intero processo, il frutto della diversa reazione comportamentale, non il punto di partenza. Per cui, “spiegare”, in caso d’impasse psicologica, non corrisponde a “capire” e tantomeno a “fare”. Invece la paziente dell’esempio sopra riportato, per effetto del colloquio terapeutico, è stata indotta a persuadersi di essersi persuasa da sola. Ella ricominciò così a prendere i farmaci prescritti per la gestione del dolore e non per la guarigione.

Counseling strategico

Quello che è stato fin qui descritto si riferisce a impasse psicologiche dei pazienti, spesso delle vere e proprie psicopatologie che impediscono la corretta gestione della malattia. Nella pratica clinica dell’operatore sanitario, invece, può essere di aiuto conoscere e applicare tecniche di counseling (o colloquio di aiuto) per favorire fin da subito compliance terapeutica ed evitare il più possibile risposte oppositive da parte dei pazienti.

Il counseling non è una tecnica psicoterapeutica, quindi non si applica a tutte le situazioni di evidenza psicopatologica; è piuttosto una modalità di offrire assistenza qualificata nelle abituali mansioni di aiuto, in questo caso sanitario.

Il colloquio di aiuto non mira alla diagnosi, bensì a facilitare il superamento delle difficoltà che le persone incontrano nell’iter terapeutico, attraverso un metodo specifico di conduzione del dialogo. L’aiuto consiste nel rimuovere ostacoli, cognitivi o emozionali, oppure impedimenti esterni, in modo da rendere possibile il dispiegarsi delle potenzialità della persona.

Le tecniche di counseling a indirizzo strategico prevedono lo studio dell’atteggiamento e le abilità del counselor, ovvero di colui che aiuta, in modo da acquisire abilità operative che favoriscano un clima di relazione collaborativa, tenendo conto che è il cliente il “vero esperto del proprio problema”. Ciò comporta di adattare lo stile comunicativo dell’operatore a quello dell’interlocutore, pur conservando il proprio modello professionale. Di saper riconoscere da subito i tentativi di soluzione disfunzionali del paziente, sia ideativi che comportamentali, e intervenire per evitare che si crei il “problema”, cioè l’evoluzione psicopatologica. Ad esempio, se un paziente assume la prescrizione farmacologica giusta, ma con posologia insufficiente, o, al contrario, se ne abusa, l’intervento consiste nella correzione, ottenuta come risultato congiunto dal dialogo tra i due attori (paziente e operatore sanitario).

Nel caso delle patologie croniche, il processo di aiuto dovrà essere mirato sui microbiettivi progressivi per evitare drop out terapeutici o down psicologici. Le tecniche di comunicazione dovranno allora favorire l’efficacia e l’efficienza nell’affrontare le diverse situazioni problematiche.